Dipendente in part-time che riveste la carica di socio accomandatario di una SAS: sussiste incompatibilità?
La società in accomandita semplice (S.a.s.) è una società di persone nella quale sono presenti due tipi di soci: gli accomandatari e gli accomandanti.
I soci accomandatari sono gli unici soci che possono amministrare la società e rispondono solidalmente e illimitatamente dei debiti della società.
Infatti, ai sensi dell'art. 2313 c.c. nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita.
Il successivo art. 2318 prevede che i soci accomandatari hanno i diritti e gli obblighi dei soci della società in nome collettivo e l'amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari.
In sintesi, i soci accomandatari:
– rispondono solidamente e illimitatamente per tutte le obbligazioni sociali;
– se l’atto costitutivo non dispone diversamente, hanno tutti disgiuntamente l’amministrazione e la rappresentanza della società.
Il socio accomandatario risponde dei debiti sociali assunti nel periodo in cui rivestiva tale carica, anche successivamente allo scioglimento del suo rapporto con la società (cfr Tribunale di Parma sez. I, Sent. 16/03/2015, n. 515).
A norma dell'art. 2313 c.c. i soci accomandatari della società in accomandita semplice rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, regola questa da estendere, per effetto dei richiami normativi contenuti negli artt. 2315 e 2293 c.c., anche con riferimento alle obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio, siccome previsto dall'art. 2269 c.c.; peraltro, in base al combinato disposto degli artt. 2315 e 2304 c.c., il socio accomandatario, al quale sia richiesto il pagamento di un debito della società, è titolare del c.d. beneficium excussionis, potendo cioè opporre al creditore sociale la previa escussione del patrimonio sociale (T.A.R. Piemonte, sez. II, Sent. 15/11/2013, n. 1197).
Per contro, ai sensi dell'art. 2320, i soci accomandanti non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari. Il socio accomandante che contravviene a tale divieto assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell'articolo 2286.
Pertanto, il socio accomandatario, all'interno della società in accomandita semplice, è il solo responsabile per l'emissione di fatture per lo svolgimento di operazioni societarie inesistenti, poiché il socio accomandante non ha potere decisionale o di rappresentanza della società; poteri riconosciuti, invece, in capo al socio accomandatario (Comm. trib. prov.le Milano, sez. XLVI, 27/06/2016, n. 5637).
Il socio accomandante assume la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, a norma dell'art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di trattare o concludere affari in nome della società, o di compiere atti di gestione aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull'amministrazione della stessa (Cassazione civile, sez. lav., 31/05/2016, n. 11250).
Ciò premesso, a nostro avviso, il dipendente pubblico può assumere la qualità di socio accomandante (limitata, appunto, all’apporto di capitale e relativi eventuali benefici e, trattandosi di mera partecipazione societaria senza svolgimento di attività commerciale) ma non quella di socio accomandatario, che ha responsabilità di amministrazione, allorchè si tratti di dipendente a tempo pieno o con part time superiore al 50%.
Precisiamo quest'ultimo punto.
L’art. 53, primo comma, del D.Lgs. n. 165 del 2001 prevede che resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del Testo Unico approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.
L’art. 60 del DPR n. 3 citato prevede che l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente.
Deve essere considerata come esercizio del commercio e dell’industria ogni attività imprenditoriale; deve, inoltre, essere considerato esercizio di attività imprenditoriale il ricoprire la posizione di presidente o di amministratore di società di capitali. Non costituisce, invece, esercizio di attività imprenditoriale il ricoprire la posizione di amministratore o di presidente di fondazioni o associazioni o di altri enti senza fini di lucro.
È, quindi, incompatibile con lo status di pubblico dipendente l'assunzione di cariche in società aventi scopo di lucro, che possono essere svolte soltanto previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza (Corte Conti Liguria Sent. 22/10/2015, n. 83).
Invece, il divieto in questione di cui all'art. 53 citato non pone limiti alla partecipazione di un pubblico dipendente in società commerciali in qualità di mero socio di capitale. Esso esclude, invece, come detto sopra, che egli possa ricoprire cariche sociali, compiere atti di amministrazione nella società, trattare o concludere affari in nome della stessa.
In giurisprudenza (cfr Corte di Cassazione, sez. lav., Sent. 26/11/2012, n. 20857) è stato affermato che l'impiegato della Pubblica Amministrazione non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione, senza alcun riferimento ad attività retribuita, onde il divieto deve ritenersi assoluto, a prescindere dalla sussistenza o meno di una remunerazione, ovvero di una continuità della prestazione lavorativa diversa da quella espletata alle dipendenze della P.A. (nel caso di specie è stata confermata la legittimità del licenziamento inflitto ad una dipendente pubblica sorpresa all'interno del negozio della sorella, intenta a svolgere mansioni di commessa ed attività di vendita, anche durante il normale orario di lavoro in giornate di assenza dal lavoro giustificate dallo stato di malattia).
Fermo restando quanto già detto sopra in tema di divieto di esercizio dell'attività imprenditoriale, la Corte dei Conti, con la Sentenza n. 9 del 7 maggio 2019, ha affermato che per un dipendente pubblico a tempo indeterminato è assolutamente vietata l’attività di amministratore unico di una società di capitali, in quanto carica sociale palesemente e testualmente vietata e non autorizzabile ex art.60, d.P.R. n.3 del 1957, richiamato dall’art.53, co.1, D.Lgs. n.165 del 2001.
Il Consiglio di Stato ha affermato che non vale ad escludere la situazione d'incompatibilità di un pubblico dipendente, che eserciti un'attività imprenditoriale, il fatto che egli eserciti regolarmente il suo lavoro, in quanto la norma d'incompatibilità mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente stesso, ai fini di un miglior rendimento nei confronti della p.a. datrice di lavoro (cfr. Consiglio Stato sez. V sent. 13 gennaio 1999 n. 24).
In giurisprudenza è stato altresì affermato:
- Consiglio di Stato sez. VI, 24/09/1993, n.629: rientra tra le ipotesi di incompatibilità con il pubblico impiego previste dall'art. 60 t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 la titolarità di un'impresa artigiana.
- T.A.R., Lazio sez. I, 20/05/1987, n. 1085: nell'ampia locuzione adoperata dall'art. 60 t.u.imp.civ.st. (d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) in tema d'incompatibilità (commercio, industria e professione) deve intendersi inclusa anche l'attività lavorativa svolta in qualità di artigiano.
Come già rilevato in precedenti risposte in argomento, a nostro avviso, la titolarità di un'attività commerciale resterebbe vietata anche nel caso si trattasse di part time non superiore al 50%.
A queste conclusioni è giunto anche l'USR Emilia-Romagna nella Nota 2456 del 9 febbraio 2007.
Nel Parere citato viene precisato che la titolarità di una attività commerciale resta assolutamente vietata all’intera categoria dei dipendenti, così come risulta vietata, per la medesima categoria, la possibilità di accettare cariche in società costituite a fine di lucro.
Il citato art. 53, al comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001 prevede che resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall'articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall'articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dagli articoli 57 e seguenti della Legge 23 dicembre 1996, n. 662.
Il comma 56 dell'art. 1 della Legge n. 662 del 1996 prevede che le disposizioni di cui all'articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (ora art. 53 del D.Lgs. n. 165 del 2001), e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.
Ai sensi del successivo comma 58, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale può essere concessa dall'amministrazione entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l'eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L'amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l'attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell'amministrazione stessa. La trasformazione non può essere comunque concessa qualora l'attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorrere con un'amministrazione pubblica. Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all'amministrazione nella quale presta servizio, l'eventuale successivo inizio o la variazione dell'attività lavorativa.
Dall'analisi della normativa di cui alla Legge n. 662 del 1996 e delle disposizioni del CCNL 2007 ( cfr. art. 58 co. 9) si evince che il riferimento è alla attività di lavoro autonomo o subordinato.
Conclusivamente, abbiamo in precedenza ritenuto che vi fosse incompatibilità tra status di dipendente pubblico (seppur in part time non superiore al 50%) e l'attività commerciale o di amministratore di società.
Per completezza si deve però rilevare che, come appreso anche durante i nostri corsi di formazione, da parte di alcuni Uffici Scolastici vi è negli ultimi tempi una interpretazione più estensiva sulla questione di cui al quesito (compatibilità o meno della attività commerciale in caso di dipendente con part time non superiore al 50%)
Ad esempio l'USR Piemonte con la Nota 12437 del 26 agosto 2022 ha ribadito la regola dell’incompatibilità assoluta con riferimento al personale scolastico, sia a tempo pieno che parziale con prestazione lavorativa superiore al 50%, è posta dall’art. 508, comma 10, d.lgs 297/1994 (Testo unico Istruzione) rispetto all’esercizio di attività commerciali, industriali e professionali ovvero svolte alle dipendenze di soggetti privati o, ancora, comportanti l’accettazione di cariche in società costituite a scopo di lucro. ( in senso analogo cfr la Nota operativa USR Sicilia n. 21198 del 31 agosto 2020)
Pertanto, il dipendente se a tempo pieno (o con part time superiore al 50%) non può esercitare attività commerciale (o assumere cariche in società) mentre se in part time non superiore al 50% i recenti orientamenti di cui abbiamo detto sopra ammettono la possibilità di autorizzazione.
Ciò, ovviamente, al netto di eventuali indicazioni diverse da parte dell'USR di riferimento.
In tal senso si muove anche la recente giurisprudenza.
Ad esempio (cfr Cassazione civile sez. lav., 18/07/2022, n.22497 seppur con riferimento ad un dipendente di un ente locale) ha affermato che i dipendenti pubblici con un part time non superiore al 50% possono instaurare rapporti con altri enti anche in assenza di autorizzazione da parte della pubblica amministrazione di appartenenza. Nella motivazione si richiama Cass., Sez. L, n. 28757 del 7 novembre 2019, "In tema di pubblico impiego privatizzato, alla stregua della disciplina di cui al combinato disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 (applicabile "ratione temporis"), D.P.C.M. n. 117 del 1989, art. 6, comma 2, e della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 58-bis, si deve escludere che i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale superiore al 50 per cento possano essere implicitamente autorizzati, in via generale, allo svolgimento di attività extralavorativa retribuita, in quanto la normativa in esame consente una deroga al principio di incompatibilità in caso di svolgimento di lavoro part-time solo quando il lavoratore svolga una prestazione ad orario ridotto non superiore al 50 per cento" (per lo sviluppo giurisprudenziale in materia, cfr. Cass., Sez. L, n. 8642 del 12 aprile 2010)".